venerdì 22 giugno 2007
Pupi Avati: "Il cinema italiano ha rinunciato alla qualità"
ROMA - La carriera artistica di Pupi Avati, nato a Bologna il 3 novembre 1938, ha inizio nel 1968 con il lungometraggio "Balsamus, l'uomo di Satana", uno strano mix di gotico e grottesco assolutamente fuori dai canoni della produzione italiana del tempo. Da allora il regista dirigerà numerosissimi film dei generi più vari ottenendo un successo sempre maggiore tra pubblico e critica. Ricordiamo ad esempio "Le strelle nel fosso" (1979), "Festa di laurea " (1985), "Il testimone dello sposo" (1997) o i più recenti "Il cuore altrove" (2003) e "Ma quando arrivano le ragazze?" (2005). Eppure Pupi Avati non perderà mai la passione per il genere "dark" continuando di tanto in tanto a proporre film come "La casa dalle finestre che ridono" (1976), "Zeder" (1981) e "L'arcano incantatore" (1997). Nel 1995, in collaborazione con Maddalena Fellini e il Comune di Rimini, istituisce e diventa presidente della "Fondazione Fellini" che si occupa di promuovere eventi in ricordo del grande regista scomparso.
Abbiamo incontrato Pupi Avati in occasione della conferenza stampa di presentazione degli eventi organizzati dalla Fondazione per la rassegna "Fellini estate 2007" che partira il 30 giugno a Rimini.
Quali sono gli obiettivi che si prefigge la Fondazione Fellini?
Pupi Avati: L'opera di Federico Fellini Fellini ha avuto un ruolo determinante nella cultura italiana, soprattutto per quelli della mia generazione. Purtroppo o per fortuna, però, non ha lasciato eredi, nessuno ha mai tentato di imitare il suo modo di fare regia, probabilmente per paura di fallire miseramente di fronte alla grandezza del maestro. Con la Fondazione Fellini, vogliamo far conoscere alle nuove generazioni chi era Federico e quanto è stato importante il suo lavoro nel cinema. Temiamo che la sua eredità venga perduta come è successo per altri grandi cineasti, così, tramite diverse forme d'arte (mostre, teatro, musica e ovviamente cinema), cerchiamo di far avvicinare i giovani al linguaggio felliniano.
Qual è l'eredità che si rischia di perdere?
P.A.: La proposta culturale di Fellini è qualcosa di imprescindibile per il cinema italiano. Dal mio punto di vista ogni mezzo espressivo ha una propria vita biologica: una nascita, il momento in cui raggiunge la sua massima grandezza e un declino. Con Fellini il cinema ha raggiunto il suo acume. Sono dell'idea che andrebbero istituiti dei corsi di cinema felliniano in tutte le facoltà universitarie, non solo nelle scuole specializzate perchè ormai c'è una distanza sufficiente per poterne parlare con serenità e serietà.
Qual è il suo film preferito di Fellini?
P.A.: Sicuramente "Otto e mezzo" che trovo il film più seducente che un regista potesse realizzare.
Qual è la sua opinione sulle recenti dichiarazioni di Quentin Tarantino? Il cinema italiano è così deprimente?
P.A.: Credo che ci sia un fondo di verità nelle sue parole. I toni che ha usato Tarantino non erano accettabili, ma il contenuto del suo discorso sì. Il cinema italiano ha rinunciato a guardarsi intorno a 360° ripiegandosi su sè stesso e limitandosi a raccontare il presente e il "sottocasa".
Cosa ne pensa del rapporto tra televisione e cinema in Italia?
P.A.: In Italia si producono pochi film, circa una sessantina l'anno, e ancora meno sono quelli distribuiti nelle sale (pensiamo solo alla Francia in cui la media è di 260...). Inoltre la televisione ha scelto di investire su format diversi da quello cinematografico, così i film, soprattutto quelli di qualità, si possono ritrovare in tv solo in seconda serata o addirittura di notte, senza parlare, poi, del palinsesto estivo che non propone davvero nulla. La televisione italiana si è creata perloppiù un proprio stile cinematografico che è quello della fiction, purtroppo inseguendo più le leggi di mercato che il livello artistico. Questo ha sicuramente contribuito alla diseducazione del pubblico italiano in materia di cinecultura.
Che messaggio vuole lanciare ai giovani che si apprenstano a entrare nel mondo della regia?
P.A.: Invito i ragazzi a trovare una propria identità cercando di raccontare le storie che meglio conoscono evitando di copiare il "già visto" e di scappare all'estero per realizzare i propri lungometraggi. Purtroppo il problema della comunicazione è insormontabile: per quanto uno conosca bene una lingua straniera, non potrà mai avere lo stesso rapporto profondo e la stessa padronanza delle situazioni che avrebbe lavorando in lingua madre. Io stesso sono reduce da un film girato in America che per quanto raccontasse una storia italiana e la protagonista fosse Laura Morante, non è stato così sentito come i lavori che ho relizzato nella mia terra.
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